L’ultima incredibile avventura. 4°tappa

Buongiorno! Oggi fin dove arriveremo?


Una notte strana, non più abituati alla comodità di un letto, o la stanchezza veramente inizia a farsi sentire (ormai più di 300 km), oppure mentalmente ci stiamo scaricando sapendo che il peggio è passato.
Il peggio è passato? Chiedetelo a Roberta se è così!
Una notte quasi completamente insonne per lei, e questo l’ha debilitata oltre modo. Teoricamente oggi dovremo arrivare verso Trento,
per poi, domani, affrontare l’ultima tappa lungo la Valsugana e Feltre. Vedremo.


Si parte! Salutiamo il portiere dell’hotel, recuperiamo biciclette e borse da viaggio e lentamente ci immergiamo nel caotico traffico
mattiniero della citta di Bolzano.
Quando si legge caotico una persona immagina camion, automobili, corriere, ecc.
Nel nostro caso si tratta di biciclette. Dovete capire, almeno ai nostri occhi, Bolzano, come un enorme crocevia di ciclabili, di
conseguenza persone in bicicletta che vanno al lavoro, persone che camminano, che fanno jogging o ferme che chiaccherano in attesa
di chissa che cosa. Certo, una parte di traffico tradizionale c’è, ma quello è il minimo.
Sgusciati, non senza difficoltà tra le vie del centro, ci facciamo la prima dose di calorie con una mega brioches farcita di cioccolata.
Cercando di orientarci, e credetemi non è facile con tutte quelle ciclabili, decidiamo di seguire il fiume che scende verso sud.


La scelta sembra ben studiata e ponderata, e iniziamo a pedalare allegramente verso Trento.
Verso Trento? Ne siamo sicuri? Ebbene no, siamo diretti a sud ma verso la ciclabile che poi risale verso Merano, primo inghippo.
Riproviamo ad orientarci seguendo le mappe virtuali, ma la confusione è tanta, il caldo inizia a cuocere i cervelli, e in più dovete capire che parliamo di due persone in bicicletta che non possono transitare su bretelle a scorrimento veloce o tangenziali, di conseguenza, anche il solo fatto di essere fuori strada di 5 km per noi è complicato.
Troviamo un gruppo di ciclisti fermi e chiedo informazioni.
Complicato mi dicono. Ormai a questo punto vi conviene uscire dalla ciclabile, attraversare la zona industriale di Bolzano (dove c’è la Salewa per capirsi), e da li ritornare nella ciclabile dell’Adige verso Trento. Facile da dirsi, per nulla da farsi.
Dobbiamo immaginare una zona industriale di una grande citta, rotatorie, strade a scorrimento veloce, e pochi riferimenti visivi.
Dovete passare a fianco alla Salewa, ci aveva detto!
Beh, ci saremo passati a fianco minimo 5 volte, ma un cartello malefico ci impediva di continuare.
“Disperati”, immaginate la stanchezza, il caldo, la depressione, decidiamo di fermarci al bar della Salewa stessa, se non sanno loro.
“Dovete attraversare il sottopassaggio e proseguire a dx” ci disse la barista.
Signorina, a destra c’è il divieto!
“Ma no, ci sono passata qualche giorno fa” lei.
Mi creda signorina, ci siamo passati 6 volte stamattina e non c’è via d’uscita. Al che una cameriera che probabilemte ci aveva sentiti disse: “Si, hanno ragione loro, è chiusa per manutenzione per 3 km, devono fare un tratto della vecchia statale, poco frequentata”.
Ma non potevano scriverlo vicino al divieto di transito? Chiesi io.
La signorina fece spallucce e sorridendo tornò al lavoro.
Ebbene avevamo già perso quasi due ore solo per arrivare nei dintorni di Laives.
Forse, ai più, non è possibile capire quanta energia fisica si consumi con uno stress mentale, tanta credetemi.


Da quel momento la nostra ciclabile dell’adige ebbe un impatto non positivo sulla nostra avventura.
Caldo, caldo, caldo! Una riga di asfalto infinità, in leggera, impercettibile discesa. Ho letto tanti blog sulla ciclabile Trento/Bolzano, tutti entusiati, noi non l’abbiamo per nulla goduta. Eterna, sempre uguale, il fiume da un lato, e questa valle infinita. Ho visto di meglio.
Scusatemi la franchezza ma la penso così, sarà perchè è una delle ciclovie più importanti e veloci d’Europa, ma sembra un’autostrada.
Mai un passaggio in un centro abitato, sempre pedalare e via. Vabbè, ve lo avevo detto, la nostra giornata si era già rovinata prima.
Lasciamo a distanza Bronzolo, Ora, Egna, Salorno, ed entriamo in Trentino. Ciao Alto Adige, sei veramente spettacolare.


E’ quasi l’una, la fame e la sete è tanta, scorriamo a fianco di Mezzocorona e troviamo un Bicigrill nelle vicinanze di S. Michele all’adige.
Ci siamo divorati l’inverosimile.. con la compagnia di una birra media. Fantastico e sopratutto consigliato se ci passate.


Si riparte, la nostra energia è al lumicino, e i nostri occhi dicono tutto.
L’intenzione di questa mattina era quella di salire verso Civezzano (tra Trento e Pergine) e dormire in zona, ma entrambi siamo alla
“canna del gas” … sfiniti. Pedaliamo ormai per abitudine, quasi il paesaggio ci scorre malvolentieri, anche la sola salita di un sovrapasso
sembra di scalare una montagna.

Ulteriore sosta, guardo Roberta e gli dico: Se andiamo in stazione a Trento e prendiamo il treno per Primolano, in serata potremo essere a casa nostra.
In fin dei conti non dobbiamo dimostrare niente a nessuno, è la nostra sfida, è la nostra avventura, è il nostro sogno nel cassetto.
Non servì neppure che mi rispondesse, i suoi occhi stanchi la pensavano precisamente come me.
Lavis, quasi arrivati … Questo “quasi arrivati” è di malaugurio, ogni volta che lo dico succede qualcosa.
Ciclabile, un pò confusa in questo tratto per chi la conosce poco, siamo in coda a una coppia di Tedeschi con i figli, e due ragazzi con le biciclette da corsa. Bivio, i tedeschi da una parte e i ragazzi dall’altra. Che faccio? Io sono l’apristrada tra noi due.
Decido di seguire i due ragazzi, ma in un paio di minuti scompaiono all’orizzonte, altra energia nelle gambe, altra età, e adesso?
Non c’è più la ciclabile bensì un’altra zona industriale!!! Trento Nord.
Sono incavolato con me stesso, nervoso, nevrastenico, infuriato e stanco. Mi “attacco” al gps (navigatore), mi dice 8 km di strada normale.
Trento Nord, traffico, caos, smog, caldo, afa, stanchezza .. tutto dire.
Lascio stare questo passaggio, meglio così, arriviamo in stazione e Roberta, la super Roberta, prenota i biglietti. Abbiamo tempo quasi un’ora.
Ci sediamo sulle panchine lungo i binari in attesa, iniziamo a “svestire” le bici dalle borse e da tutto il materiale (dobbiamo appenderle in treno), e finalmente iniziamo a rilassarci. I pensieri e le parole vanno ai luoghi meravigliosi che abbiamo attraversato, alle nostre avventure, che in questi brevi ricordi sono solo pillole. Soddisfatti, entusiati, meravigliati, non potremmo aggiungere altro.
Il treno arriva, carichiamo le bici e ci sistemiamo in carrozza, la Valsugana scorre veloce, vediamo la ciclabile che la percorre e i ciclisti affannati dal caldo. Quest’anno l’abbiamo percorsa almeno tre volte, verso sud e verso nord, molto molto bella.
In quel momento ricordo a Roberta che ci manca da affrontare “le scale di Primolano”. Lei mi risponde:”sarà una passeggiata”.


Primolano!
Si scende, ricarichiamo le biciclette con i nostri bagagli (per l’ultima volta in quest’avventura), e ci rechiamo alla fontana in piazza,
quella con il leone di S. Marco.
Siamo pronti, si sale lenti ma felici, mancano pochi km, la salita scorre abbastanza veloce, ci è tornata pure la voglia di guardarci attorno, essere curiosi e meravigliarci di ciò che vediamo. Fastro, Arsiè, Arten, Mugnai … dopo giorni di caldo impressionante, delle nuvove minacciose percorrono il cielo. Le conosco, quelle portano pioggia, grandine, danni.


Veloce Roberta, veloce. Arriviamo alle macchine parcheggiate a Feltre, il tempo di caricarle, salutarci e … scende il finimondo!
E’ buio tutto d’un tratto, il diluvio universale.
Un paio di giorni dopo guardando il tg, scopriamo che l’Alto Adige, la zona tra Bolzano e Trento, è completamente devastata dal maltempo.
Alberi sradicati, ciclabile sott’acqua, strade interrotte, problemi di viabilità. Incredibile. Veramente incredibile.
Ne siamo usciti incolumi, felici e sopratutto asciutti.

Massimo Facchin Testimonianza dal fronte Russo.

Gallelli orrendamente ferito.
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Ho detto e scritto tanto sulla campagna di Russia. Ho interpretato con le mie sculture, sui monumenti nelle piazze e nei parchi d’Italia quella immane tragedia, che sconvolse la gioventù di tanti ragazzi e creò dolore nelle loro famiglie. Dolore che si perpetua ancora oggi nei parenti superstiti e nei loro discendenti, ogni qualvolta viene ritrovato una piastrina di riconoscimento o quando i resti di una salma rientrano, dopo tanti anni nel loro paese d’origine.
Un ricordo che voglio però perpetuare, oltre al racconto che vi scriverò, è quello riguardante la generosità del popolo russo e in particolare delle donne.
Madri, sorelle e fidanzate che avevano i loro cari al fronte non esitarono mai ad aiutarci, quando potevano, alleviando il nostro dolore, dandoci ricovero e qualcosa da mangiare, consentendoci così di ritornare alle nostre famiglie.


Voglio, fra i tanti racconti, serbare memoria del tenente Gallelli, mio commilitone.
Non ricordo come fosse quella notte al fronte.
So solo che eravamo all’erta per non farci sorprendere dagli avversari. Al nostro comando stavano studiando i piani per un prossimo assalto. All’alba i pochi cannoni rimasti dopo l’offensiva sovietica cominciarono a far fuoco di sbarramento sul colle che in precedenza era occupato da noi e che i russi avevano conquistato.


La nostra Compagnia o, meglio, quello che ne era rimasto, doveva andare all’assalto per riconquistare le postazioni precedentemente abbandonate.
Avanzammo salendo a sbalzi sotto il tiro delle mitragliatrici e raggiungemmo indenni un camminamento trasversale scavato a metà, ma tale da mascherarci almeno in parte (purtroppo le trincee non erano mai state completate e quindi non davano un riparo sufficiente).
Nel silenzio della notte scrutammo il terreno davanti a noi dove erano schierati Russi e, tra cumuli di neve, intravedemmo delle masse bianche che si muovevano e guardavano dalla nostra parte.
All’improvviso sentimmo i colpi di partenza e l’immediato arrivo delle granate che esplodevano intorno a noi. Subito dopo, passando carponi, un soldato arrivò da me e mi disse: “Signor tenente, il tenente Gallelli e ferito!”.
Raccomandai al sergente che mi era vicino di vigilare sulle masse bianche davanti a noi e mi avviai verso la postazione di Gallelli.
Trovai il collega riverso sulla schiena: afferrai il bavero del pastrano per sollevarlo e questo mi restò in mano mentre lui ricadde con la testa sulla neve.
La divisa aveva un grande squarcio, mi feci aiutare dal caporale vicino agendo con forza sui fianchi. Lo spettacolo che mi si presentò fu raccapricciante: le costole per un lungo tratto erano tagliate di netto dalla spina dorsale.
Gallelli era ancora vivo e urlava dal dolore ripetendomi in un lago di sangue: “Abbazzabi, Abbazzabi Facchin ..”.
Non gli riusciva più di pronunciare la m. Lo feci portare ad un piccolo ricovero che si trovava lì vicino, sperando, nonostante la grave ferita, che si potesse fare ancora qualcosa per lui.
Nello stesso tempo ero preoccupato per gli uomini che avevo lasciato in linea anche se sapevo che il sergente era un uomo in gamba…


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Estratto (una parte) del racconto di:
Sottotenente
Massimo Facchin (Lamon 1916)
6° Compagnia, III Battaglione
89° Reggimento Fanteria Salerno
5 Divisione di Fanteria di linea Cossèria.
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Dal libro “Voci dalla steppa”
Carlo Balestra e Italo Riera foto non inerenti al post

Mirko Dalle Mulle e aido Belluno

Ciao, ho 42 anni e pochi mesi fa ho avuto la gioia di ricevere il mio secondo trapianto di rene.
Per me, sono stati anni difficili fin da bambino, ho dovuto affrontare due volte il percorso dell’emodialisi per sopravvivere, ma ho incontrato due nuove famiglie che mi hanno adottato e mi hanno donato una nuova vita.


Da quando ho imparato che la parola “Dono” è tra le più belle e profonde, mi sono dedicato a farla conoscere a più persone possibili entrando a far parte di AIDO come volontario, uno dei percorsi di crescita personale più belli della mia vita. Da tanti anni ormai ne faccio parte ed è una gioia poter parlare di donazione e trapianto in tutti i modi possibili, anche grazie a questi nuovi canali di comunicazione che la tecnologia ci mette a disposizione!
Dire di SI è una scelta che dona vita alla vita!”

Sono convinto che ascoltare persone come lui sia stato un grande dono per me, volevo_volare è nato come “contenitore” di emozioni e di persone vere, una diretta streaming senza fronzoli e fiocchi. Grazie Mirco di essere stato nostro ospite, ci hai insegnato molto. Guardatevi il video nel canale Youtube di Terris Ferox.
Lo potete trovare su Facebook a suo nome, oppure nella pagina Facebook “aido belluno”, nel sito http://www.aido.it/belluno
o alla mail: belluno.provincia@aido.it

Vittorio Camacci e Arquata del Tronto.

Da subito ho capito che qualcosa di simile in noi c’era. Una sera di qualche mese fa, vidi la puntata di “Propaganda Live”, su la7, e rimasi affascinato dalla semplicità, ma nello stesso tempo dalla verità, che traspariva in un personaggio intervistato, proprio
Vittorio Camacci.


Tutto finì li, mi rimase la curiosità di scoprire la zona, la storia, la cultura, tutto ciò che poteva tornarmi utile per un’eventuale
visita turistica. C’è sempre un però ..
Un giorno, l’amico Marco Toppan, mi parlò di una possibilità di contatto con una persona che avrebbe potuto parlare del proprio territorio, un territorio semplice, vero, verace.

Un territorio segnato da una triste calamità, il terremoto del 2016, che devastò parecchie zone del
centro Italia.


E questo ci portò a parlare in diretta streaming su #volevo_volare con Vittorio Camacci, tema: Arquata del Tronto, territorio e rinascita.
Arquata del Tronto è un comune italiano di 1 062 abitanti della provincia di Ascoli Piceno.
Appartenente alla Comunità montana del Tronto, confina con tre regioni (Lazio, Umbria ed Abruzzo), è l’unico comune d’Europa racchiuso
all’interno di due aree naturali protette (il Parco nazionale dei Monti Sibillini a nord e il Parco nazionale del Gran Sasso e
Monti della Laga a sud), ed è noto per la presenza della storica rocca medievale che sovrasta l’abitato.
Il territorio dell’arquatano, prevalentemente montuoso, è caratterizzato dalla presenza del monte Vettore, del monte Ceresa,
del massiccio dei Sibillini e della catena dei monti della Laga. Il paesaggio varia tra alpestri pareti scoscese che si avvicendano
a fitti boschi di castagno, faggio e conifere; tra pendii e ampie balconate naturali, verdi campi e aree pascolive.
Dalle cime più alte si scorgono i profili del Gran Sasso e del mare Adriatico.
Lungo il territorio arquatano scorreva un’importante via romana, ed ora intelligentemente gli abitanti cercano di intercettare le persone che cercano un turismo vero, sano e sopratutto lento.


Il tracciato della Via Salaria che percorreva la Terra d’Arquata era quel ramo di strada che derivava dalla biforcazione della consolare
proveniente da Roma all’altezza della cittadina di Antrodoco e risaliva la valle del Velino per superare gli Appennini, discendere lungo la valle del Tronto fino ad Ascoli Piceno, concludendo il suo percorso a Castrum Truentinum sul litorale adriatico.
Le fonti non indicano il tempo della costruzione di questa diramazione della via commerciale romana che si trova rappresentata sia nella Tabula Peutingeriana, copia di un’antica carta romana che illustra le strade militari dell’impero, e sia nell’Itinerario antonino, registro che annovera le stazioni e le distanze tra le località poste sulle diverse strade dell’Impero romano.


Che dire oltre?
Ci rivedremo molto presto, ma questa volta dal vivo!
Forza Arquata del Tronto.

TOPONIMI PREROMANI E ROMANI DELLA VALSUGANA 2°parte

La situazione è ben diversa se l’indagine toponomastica cerca tracce dell’epoca preromana. Scrive Pellegrini: Per l’epoca preromana non è da escludere che [in Valsugana] vi fossero insediati nuclei di popolazioni etnicamente analoghe o identiche a quelle, assai più note, che sono state individuate per il Feltrino e continua poi: … pare che il nucleo principale della cittadina preromana (cioè Feltre) fosse costituito da schiatte reto-etrusche. Purtroppo i rinvenimenti archeologici preromani sono ben poca cosa come ci attesta la Carta archeologica curata da Giacomo Roberti che ci presenta la situazione negli anni ’50/’60, situazione che, a quanto mi è dato di sapere, non è mutata sensibilmente in questi ultimi decenni. A questo proposito
afferma Pellegrini che mancano ad esempio quasi del tutto le tombe o cospicui sepolcreti di una certa estensione e pochi sono i ritrovamenti significativi per l’aspetto etnolinguistico. Non sono molti i toponimi ascrivibili a quest’epoca, anche se sempre
in numero maggiore di quelli attribuibili all’epoca romana. Pur ammettendo che lo studio dei toponimi prelatini si basa necessariamente su analogie e omofonie che non possono avere un valore assoluto, si possono tuttavia ritenere che abbiano radici prelatine i nomi di tre centri abitati: Bieno, Spera e Telve. Bieno, in dialetto bién, è attestato nel 1241: Comune Bleni. Pellegrini opta per un’origine
genericamente prelatina; il Pieri lo ritiene etrusco. Il toponimo è da confrontare con Bienno nel Bresciano, Biena e Bieno nel Novarese e Blenio nel Canton
Ticino (già Belenium), tutti con la e aperta. L’Olivieri per il toponimo bresciano, documentato nei secoli XII e XIII come Boenno, Buenno, pensa a un derivato
aggettivale della base prelatina bova “smottamento” e per i toponimi novarese e ticinese al personale, forse etrusco, Biena. Nel 1211 è documentato nel
Bergamasco anche un toponimo ad Blenum.

Spera, in dialetto spèra, è documentato nel 1220: de spadra e nel 1372: homines de Spayra. Per Pellegrini si tratta di un nome locale molto interessante per il rispetto fonetico poiché ci documenta il passaggio di dr>ir e successivamente di ai>è e propone un prelatino spatra dal significato ancora oscuro. Il toponimo è da confrontare con Quàere a Levico e Quàjero a Caldonazzo che derivano ambedue da quadra e registrano quindi lo stesso passaggio di dr>ir. Telve, in dialetto tèlve, documentato nel 1183: Vilanellus de Telve e nel 1192: Ottolinum de Telvo, pare collegabile a *telava, v. *tala “terra ghiaiosa”.

Telve va accostato al toponimo Telves/Telfes, nell’827 Telues, e all’idronimo Talvera/Talfer, nel 1077 Talaverna, ambedue alto-atesini, e a Telf, Telv nei
Grigioni. Castel Telvana è un toponimo nei pressi di Borgo documentato per la prima volta nel 1302, in loco Telvana, e che deriva da un toponimo Telvana che si ripete anche a Dambel in Val di Non e a Civezzano. Sempre in Valsugana abbiamo Telvàgola che denomina una valletta alpestre. Sono toponimi che dovrebbero derivare tutti dalla stessa base.

Prelatino è il nome stesso della valle che deriva da Ausugum, Alsugum, il nome antico di Borgo. Borgo compare nei documenti d’archivio soltanto a partire
dal secolo XIV. Ausugum, che, secondo Battisti, era l’unico luogo abitato all’epoca romana, è riportato dall’Itinerarium Antonini del III sec. d.C. a una distanza di 30 mila passi romani da Feltre e di 24 mila passi romani da Trento. Paolo Diacono cita fra i castelli distrutti dai Franchi nel 590 uno denominato Alsuca in cui viene identificato Ausugum (da notare la consonantizzazione della u e la presenza della c che il Prati definisce restituzione illusoria della sorda in luogo di sonora come in Lachari del 1014 per Lagarina). Nei documenti troviamo per l’anno 1160: in Valle Sugana e per il 1184: per totam vallem Suganam, e anche in
Alsugo. Quindi si tratterebbe di una forma aggettivale con suffisso -ana da Ausugo. Annota il Prati che il toponimo torna un’altra volta in Valsugana e precisamente con Col de Sugo tra Agnedo e Ospedaletto (anno 1434: saxum collis Ausugij). Il trovare tale termine riferito a un colle indurrebbe a supporre che
Ausugo abbia denominato in origine il monte della Rocchetta presso Borgo.
Osserva Pellegrini che il Prati sembra postulare un *ausugum ‘colle’ ma quel colle, per ragione ignota, può avere avuto il nome del capoluogo della regione. Concludo che non ha alcun fondamento, come del resto è l’opinione sia di Pellegrini che del
Prati, la tesi cara ad alcuni studiosi locali, vale a dire la derivazione del toponimo dall’etnico Euganei che non sono qui né documentati né documentabili, come osserva Zamboni.

D’altra parte tale ipotesi non sarebbe accettabile per ragioni
fonetiche. Battisti formula un’altra tesi: riferisce che l’Itinerarium Antonini scritto
in un latino barbarico – così dice – è tramandato da due famiglie di codici, di cui la più diretta è rappresentata da due manoscritti, uno dell’VIII sec. e l’altro del X
secolo. Entrambi i manoscritti riportano la variante Ausuco che, confrontata con Alsuca e con la g secondaria di Valsugana, risulterebbe la lezione esatta. Scrive Battisti che questo Ausucum ha la sua perfetta corrispondenza in un altro toponimo delle prealpi galliche, Ossuccio sul Lago di Como nel cui territorio fu rinvenuta una
lapide dedicatoria “Matronis et geniis Ausuciatium” e perciò il toponimo risalirebbe ad un Ausucium. Quindi Battisti fa derivare Ausucum e Ausucium da un composto in -ko del celtico oux a sua volta dall’indoeuropeo *oups “sopra”, di modo che i due toponimi significherebbero “altura”. La Karg invece ritiene
Alsuca un toponimo illirico… riprenderemo il discorso..

Giulia Mastrelli Anzilotti

TOPONIMI PREROMANI E ROMANI DELLA VALSUGANA

Come Valsugana intendo la Valsugana propriamente detta, quella compresa cioè tra Novaledo e Primolano. A volte essa è detta anche “Bassa
Valsugana” in contrapposizione al Perginese con la zona dei laghi (Levico e Caldonazzo) denominato spesso, e secondo Angelico Prati impropriamente,
“Alta Valsugana”. L’estensione storica della Valsugana è notoriamente una questione molto dibattuta ed è sempre aperta. La tesi del Prati si basa su elementi storici, spie dialettologiche e indizi etnografici a mio avviso piuttosto convincenti. Alla Valsugana ho aggiunto ovviamente il Tesino che della Valsugana è un’appendice naturale.

Diamo una rapida occhiata a come si presenta il quadro toponomastico.
I nomi dei centri abitati sono in massima parte neolatini: Novaledo, così chiamato solo dal secolo XVIII, era prima detto Nuvoledo, Nivoledo: il Prati sostiene che il nome sia dovuto alle basse nuvole e nebbie prodotte un tempo dalla palude e dallo scomparso Lagomorto; il più recente Novaledo deriva invece da novale. Roncegno viene o da rónko “novale” o dal deverbale di runciare per runcare “sarchiare”, con un suffisso che ritroviamo in Torcegno e nel toponimo veronese Campegno. Agnedo è un collettivo di aneu per alneu da alnus “ontano”. Per
Scurelle concorrono obscurus “scuro” e il latino medioevale scuria “recinto per cavalli” con il suffisso -ella. Fracena secondo Pellegrini potrebbe essere un derivato di fractiare, da fractum, fracta “fratta” con il suffisso prelatino -ena noto a molti nomi sia dell’area valsuganotta che di quella feltrina. Ivano dovrebbe avere un’origine antroponimica: dal nome germanico Ivo secondo Pellegrini (il che non vuol dire che il toponimo sia germanico: personali germanici, soprattutto longobardi, erano di uso comune nel Medioevo) o da Ivano, nome di un noto eroe delle leggende del ciclo bretone, per il Prati. Ronchi, Villa, Castelnuovo, Castello, Cinte
e Pieve sono toponimi trasparenti che non hanno bisogno di venire interpretati; c’è solo da osservare che Castello, dato che non abbiamo memoria di un castello
vero e proprio, può avere il nome da un masso o da una collinetta rocciosa come è il caso di un altro Castello presso Pieve Tesino

I nuclei abitati più piccoli sono spesso denominati da cognomi o soprannomi di famiglia che risalgono senza dubbio
ai proprietari o ai fondatori dei masi originari da cui questi nuclei si svilupparono: ad esempio Filippini, Martincelli, Serafini a Grigno (Martincelli sta per Martino Celli e appunto Celli è cognome locale); Margoni dal cognome Margon a Novaledo; Bernardi, Montibelleri, Roveri e Zonti a Roncegno (gli ultimi tre dai cognomi Montibeller, Rover e Zonta); Caumi, Facchini, Rampelotti, Visentini a
Ronchi (Caumi e Rampelotti dai cognomi Caumo e Rampelotto); Tomaselli a Strigno; Dami, Martinelli, Parise a Telve (Dami o dal cognome trentino Adami o
da quello veronese Dama; Parise è cognome vicentino); Campestrini, Mocchi e
Sartorelli a Torcegno; Cainari, Coronini, Tellina a Castello (Coronini dal cognome
Corona; Telina è soprannome della famiglia Muraro).

Diversi cognomi sono tedeschi soprattutto a Roncegno, Ronchi e, in minor misura, a Novaledo. Gli stanziamenti tedeschi (di coloni e/o di minatori) risalgono al secolo XIV e furono promossi dai signori di Caldonazzo per quanto
riguarda il monte di Roncegno, almeno questa è l’ipotesi del Reich che però è stata recentemente messa in discussione, e dai signori di Telve per quanto riguarda Ronchi. Lo stanziamento di Novaledo, che fu frazione di Roncegno fino al
1737, va considerato invece un’emanazione di quello di Roncegno. Troviamo a
Roncegno ad esempio Fraineri, Pacheri, Ròneri, Smideri, Spéccheri, Stricheri rispettivamente dai cognomi Frainer, Pacher, Roner, Smider, Stricher; a Ronchi Palaieri
e Bézzeli dai cognomi Palaier e Bezzele; a Novaledo Campreghèri e Anderli dai cognomi Campregher e Anderle. Alcuni di essi furono in origine dei soprannomi di famiglia derivati dal nome del mestiere, come Roner “boscaiolo”, Smider “fabbro” e Stricher “cordaio”; altri indicano la località di provenienza come Palaier “di
Palù del Fèrsina” ecc. ecc.

Alcuni nuclei abitati prendono origine o da un nome locale come
Larganzoni a Roncegno che si rifà all’idronimo Larganza; o dalla posizione del maso originario come Belvederi a Grigno, in dialetto i balvéri, i belvéri per indicare “chi abita al belvedere”: da notare la pronuncia locale che si collega all’antico vicentino vere per “vedere”….. riprenderemo il discorso.

Giulia Mastrelli Anzilotti

Il Cristianesimo nella Valbelluna dalle origini al periodo feudale. 2°parte

Le origini del cristianesimo nella Valbelluna.

La diffusione del Vangelo nei municipi romani di Belluno e Feltre avvenne in maniera analoga a quella delle altre terre venete.
Nonostante il carattere montuoso del territorio, gli scambi commerciali con la pianura erano resi meno difficili dalle vie fluviali del Piave e del Brenta-Cismon, allora più ricche di acqua, e dall’insieme delle strade romane. Feltre era congiunta a Padova, attraverso Asolo, dalla via Aurelia; Belluno e Cadore potevano dirigersi al sud attraverso la sella del Fadalto; importante per ragioni militari era la via Claudia Augusta, che da Altino, per le nostre valli, portava alle regioni del Danubio.
Il movimento su queste strade era consistente; vi passavano soprattutto mercanti e soldati; alcuni di loro furono Cristofori, portatori di Cristo: sappiamo che già all’epoca dell’imperatore Marco Aurelio (161-180) vi erano legioni composte in gran parte di cristiani.


Possiamo immaginare il loro fervore di neofiti nel voler comunicare i beni della fede a persone incontrate sul loro cammino.
Un contributo alla diffusione del cristianesimo può essere avvenuto in qualche misura anche dalla introduzione nel territorio della centuriazione e della assegnazione di qualche terreno a famiglie di veterani legionari oriundi dall’Italia centrale, dove il cristianesimo era maggiormente diffuso.
Suggestiva è anche la tesi di alcuni studiosi che proprio nella regione Venetia et Histria venissero reclutati soldati che prestavano servizio in Siria e Palestina, dove il cristianesimo era ormai diventato una delle religioni più seguite.
Non mancano dunque ragioni fondate per credere che il vangelo abbia avuto seguaci a Feltre e Belluno fin dai primi tempi, anche se non esisteva ancora una vera e propria istituzione ecclesiale.


Dobbiamo ora chiederci se ci fu da parte delle gerarchia ecclesiastica una vera iniziativa evangelizzatrice, con l’invio di missionari nelle nostre valli, per fare conoscere Cristo e la sua dottrina. La leggenda è generosa nel darci informazioni.
Il mandante sarebbe stato San Pietro. L’ apostolo, dopo aver lasciato Antiochia, sua prima sede episcopale, sarebbe approdato in Italia sotto l’imperatore Claudio, insieme a tre discepoli.
Fissata la sua residenza a Roma da li avrebbe inviato Marco ad Aquileia, Prosdocimo a Padova, Apollinare a Ravenna.
La chiesa bellunese ha costantemente legato le sue origini ad Aquileia; da quella metropoli, Marco avrebbe mandato nella valle del Piave il presbitero Ermagora e il diacono Fortunato.


La chiesa di Feltre ha invece sempre venerato Prosdocimo come padre della fede e il suo primo pastore.
Il Santo, dopo aver fondato la diocesi di Padova, avrebbe annunciato Cristo in tutto il territorio compreso tra l’Adige e il Livenza, risalendo il corso del Brenta, sarebbe penetrato nel municipio feltrino, vi avrebbe fondato una rigogliosa comunità cristiana, fornendola di presbiteri e diaconi, ma tenendo nelle sue mani la guida pastorale.


Dal libro “Chiese e cappelle rurali nella Valbelluna”
Parte documentale di Nilo Tiezza

Il Cristianesimo nella Valbelluna dalle origini al periodo feudale. 1°parte

Orizzonte religioso della Valbelluna precristiana.

Sono scarsi i reperti archeologici che ci possono dare qualche idea sulla vita religiosa delle popolazioni bellunesi prima della loro conversione al cristianesimo.
Appartengono a strati che si sono sovrapposti. Il più antico è quello paleoveneto, non immune da qualche influsso della cultura celtica.


I sepolcreti scoperti a Mel rivelano un senso profondo dei legami familiari e una elevata ispirazione religiosa. Le ricerche fatte a Làgole, vicino a Calalzo, fanno pensare a un vero e proprio santuario dedicato a una divinità che era simbolo della maternità feconda e insieme donatrice di salute.
È venuta alla luce una notevole quantità di ex voto.
I pellegrini non si limitavano a formulare preghiere, ma bevevano da una ciotola che avevano portato con sé, l’acqua taumaturgica di una vicina sorgente e poi, per manifestare la loro fiducia di essere stati esauditi, gettavano il recipiente nel recinto sacro.
È stato dimostrato che la cultura paleoveneta di Làgole è identica a quella di Este e Montebelluna; possiamo quindi supporre che, accanto ad altre divinità indigene, il culto fosse incentrato nella dea Retia, la dea della fecondità e delle foreste.


Era molto sentito il bisogno della protezione divina, perché nelle valli del Piave si aggiravano spiriti malefici, che attentavano alla salute e alla incolumità delle persone: si chiamavano “anguane”, avevano corpo femminile e piedi di capra.
Nella tradizione del Cadore corrono ancora su di esse racconti paurosi.
Sui manufatti votivi si trova non vari nomi, ma non è certo che siano nomi di divinità.
Una religiosità molto semplice, dunque, quella delle popolazioni venetiche, incentrata sulla memoria dei defunti e sulla fiducia in divinità che potevano guarire da malattie e preservare dai mali; si spiegano così i santuari delle acque e la grande cura per le necropoli. Si spiega anche perché sia stata così facilmente assimilata la sopraggiunta religione dei romani. La romanizzazione della Venezia era venuta in maniera molto pacifica.
I Veneti si erano alleati con i Romani per arginare l’espansione dei Galli. Il passaggio dalla alleanza all’annessione politica a venne quasi naturalmente.
I dominatori, nonostante la loro superiorità culturale e militare, non fecero in posizioni.
Furono i Veneti ad adottare spontaneamente mentalità, lingua, costumi e insieme credenze e pratiche religiose di Roma. Dapprima ci fu una specie di convivenza tra le due religioni; poi, un po’ alla volta, le divinità romane presero il posto di quel paleovenete.


Le iscrizioni il lapidarie scoperte a Belluno recano in omicidi Giove, Apollo, Esculapio, Asclepio, e anche della dea Juventus. Continuò la credenza nell’esistenza di potenze malefiche e conseguentemente continuò il bisogno di mettersi sotto la protezione di qualche divinità benefica.
Non solo la città e i villaggi circostanti, ma anche le varie corporazioni di mestieri avevano il loro patrono divino.


Dal libro “Chiese e cappelle rurali nella Valbelluna”.
Parte documentale di Nilo Tiezza

L’oro bianco di Venezia

Torniamo a parlare della Valsugana e dell’importanza come via di comunicazione.
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Per arricchire il quadro fornitoci dai tariffari del Covolo aggiungiamo ora alcune notizie su alcune merci particolari oggetto di scambi frequenti.


Il cotone.
Alla metà del XIV secolo iniziò a svilupparsi nella Germania meridionale la lavorazione dei tessuti di cotone. La materia prima, importata in buona parte da Venezia che a sua volta la prendeva nel mediterraneo orientale, veniva instradata verso la Germania attraverso la via di Bassano e Trento.
Nel seicento la concorrenza degli Olandesi, che incominciarono a rifornire da nord le manifatture di Augusta, fecero purtroppo diminuire i transiti di questa merce sulla via della Valsugana e provocò una riduzione di guadagni nelle popolazione della valle che “con l’occasione di qual transito cavavano molto utile dalle condotte”.
I trasporti di cotone, seppur ridotti, continuarono tuttavia a caratterizzare la valsugana anche nei secoli successivi: “Li cottoni sono Bombacci da fillare procedenti da Cipro e dalla Smirne al porto di Venezia, e da colà sogliono far recapito a Mestre, dove poi vengono addirittura caricati sopra de’Carrettoni, e per la parte di Grigno, e Borgo di Valsugana vanno al loro destino, per Augusta, Campidonia, ed altre parti…”.


Basterebbero queste parole prese da un documento dell’Archivio Comunale di Sacco a testimoniare come nel Settecento la strada della Valsugana era ancora l’itinerario preferito dai carichi di balle diretti verso i paesi oltralpini.
Tale commercio, nel quale venezia riuscì fino agli ultimi anni del secolo a rintuzzare la concorrenza del porto di Trieste, proseguì fino al XIX secolo.
Carichi di cotone destinati alla svizzera e alla Germania continuarono transitare infatti anche nel Ottocento: ..tali mercanzie si traducono da Mestre per la via di Bassano in Tirolo da sei carrettoni, che regolarmente arrivano, e partono, ogni settimana…” scriveva il bresciano Antonio Sabbati e nel 1807, rammaricandosi che le mercanzie non seguissero le vie e i paesi del bresciano.
Ancora a proposito di cotone abbiamo le annotazioni del viaggiatore ginevrino Rodolphe Topffer che una mattina del 1842 non riuscì a partire da Borgo alla volta di Bassano perché un’enorme carretta trainata da muli e cariche di balle di cotone ostruiva la strada.



Dal libro “La Valsugana dei viaggiatori.
Claudio Marchesoni

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